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Antichi proverbi dell'isola d'Ischia

I proverbi e il loro significato recondito

Lo storico, letterato, nonchè più volte sindaco di Forio, Giuseppe D’Ascia (1822 - 1889), nella sua monumentale opera "Storia dell’isola d’Ischia" (1867) per descrivere l’indole dei baranesi si servì delle parole con cui li aveva raccontati, quasi due secoli prima, il medico ischitano Giannandre D’Aloysio

"i naturali di Barano dimostrano docilità e piacevolezza; ma nell’irascibilità non si distinguono da quei di moropano".

Aggiunge il D’Ascia:

"conservandosi ancora, ai tempi suoi (riferito al D’Aloysio), la memoria di un fiero e numeroso eccidio – fra baranesi e moropanesi – accaduto in più antica età, per cagione di una vilissima cintura; così che volendosi da alcuno minacciare qualche aspra vendetta, per proverbio del volgo si dice – come tutt’ora si sente fra popolani – voglio far rinnovare la cintura di Varano".


Poi continua:

"Ma quello spirito bellicoso ed irascibile, che si sviluppava nei baranesi fra il fumo del vino ed al calor della rissa, era abituale negli antichi moropanesi; razza montanara feroce nell’istinto, rissosa nell’abitudine, rivale per indole de’ baranesi".

Dunque, «voglio far rinnovare la cintura di Varano» è stato, sino in epoca recente, il proverbio in uso tra gli abitanti di Barano per rappresentare la propria adirazione nei confronti di qualche fatto o persona.

L’episodio del litigio "per cagione di una vilissima cintura", cui fa riferimento il D’Ascia, è nient’altro che la leggenda cui si ricorre per spiegare le origini della 'ndrezzata, il folcloristico ballo popolare della contrada di Buonopane. La favola racconta di una lunga lite tra due gruppi di abitanti delle frazioni di Buonopane e Barano, scoppiata a seguito della mancata restituzione da parte di un giovane di "moropano" di un dono d’amore - una cintura - smarrito da una ragazza di Barano. Dopo ripetuti e sanguinolenti scontri, le due frazioni avrebbero poi deciso di sancire la pace davanti la locale Chiesa di San Giovanni, bruciando l’oggetto della contesa.

Come sottolinea l’antropologo Ugo Vuoso nel suo "Di fuoco, di mare e d’acque bollenti" (Imagaenaria 2005):«la cintura rimanda ad altre valenze e significanze correlate alla rete di scambio matrimoniale», chiarendo in maniera molto efficace l’impasto di eros, onore, esibizione della virilità, che sta dietro il proverbio baranese.

Decisamente più lugubre per contesto, ma non meno affascinante, un altro antico proverbio in uso a Forio, utilizzato in riferimento a una donna stolta: «sei una Tolla» o anche «a cannaca a Tolla», detto di una donna abituata a far sfoggio di preziosi. Come l’antica becchina Tolla, diminutivo di Vincenza, che nella Forio sfiancata dall’epidemia di colera del 1837 (secondo altre ricostruzioni la leggenda va collocata nel 1656 al tempo della peste) era solita ammucchiare su una carretta i cadaveri e trasportarli nella chiesa di San Sebastiano da Padova. Qui provvedeva a spogliare i corpi esanimi degli oggetti personali, che poi infilzava tutti su un laccio che portava appeso al collo, a mò di collana (cannaca).
La follia della donna, intesa come ribellione all’autorità paterna e maritale, va ricondotta con uno sforzo di immaginazione alle miserabili condizioni di vita dell’epoca, alla paura della morte, alla fame, minacce sempre presenti di cui la becchina di Forio - che secondo la leggenda sfuggì per ben due volte alla malattia, salvo poi soccomberne al terzo contagio - diviene l’archetipo per la comunità. 

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